Racconti

momenti ottimali nell'esperienza scout

Comunità


Era il mio primo S. Giorgio, a 12 anni, quell’anno il campo fu semi-itinerante. I primi due giorni, divisi per squadriglie e gemellati con quelle di un altro reparto, avremmo percorso sentieri distinti per poi ricongiungerci ad un campo base comune. Il momento specifico di benessere fu quando ci rincontrammo con i membri del nostro reparto e passammo del tempo, tutti nella veranda di una sola tenda, a chiacchierare, scambiarci battute e raccontarci episodi dei percorsi passati, che assumevano i toni semi-leggendari dei tipici racconti ingigantiti dei tredicenni. In quel periodo in reparto eravamo una ventina, se non meno, un numero molto inferiore rispetto agli anni successivi. Per questo mi sentivo estremamente coinvolto nella vita di reparto, nelle sue avventure, nelle sue risate, anche se ancora non parlavo quasi mai e probabilmente non tutti i membri del reparto sapevano il mio nome. C’era una complicità sottesa, un legame che ci univa e ci teneva ancora più stretti dopo un periodo di allontanamento. Almeno così la percepivo. Non so se c’entri qualche meccanismo di psicologia di massa, o di rivoluzione nel gruppo, però mi sentivo protetto, unito, accomunato sotto il sole di aprile, all’ombra della veranda, o attorno al fuoco. Un momento del genere l’ho vissuto più volte in situazioni analoghe, anche da più grande, e lo percepisco sempre come una sorta di magia, un momento che si fa ricordo nell’istante stesso in cui lo vivi, dove la serenità è pura, e si mischia quasi con una malinconia di fondo, latente, che dà profondità al momento.