Durante la route estiva dell’anno scorso ho scoperto una fatica diversa dall’affanno di un campo di reparto che ti chiede di stare dietro a un fuoco nelle latte e a mille attività diverse. Camminare in cresta a una montagna per la prima volta, una catena mobile che si muove radente alla pietra, un piede dietro l’altro, uno zaino che smette di pesare sulla schiena ed è soltanto un pezzo di corpo in più, l’ultimo residuo di città che ti segue come la conchiglia di un paguro fino in vetta. Tornanti, tornanti, impari a riconoscere la roccia che assorbe in posa plastica i tuoi piedi. Lo sguardo cammina anche lui, ma ogni tanto sono sufficienti le dita e i tuoi passi a farti capire dove ti trovi. Ecco, su quei sentieri non sentivo lo scorrere del tempo e ho conosciuto la concentrazione combinata di corpo e testa come un funambolo. Il pietrisco si sbriciola come un biscotto sotto il tallone, una radice ti sfiora la punta del piede, eppure non hai il fiatone da discesa o il sudore da salita. La fatica non la senti nemmeno più: l’aria ti basta e basti a te stesso. Hai la schiena più dritta, non ti devi saziare, non hai bisogno di una sosta. Ti basta guardare il passo di chi hai di fronte e parlare con il tuo vicino passeggero della montagna.