Era il 2011. capo squadriglia delle Aquile. “Aquile, ad astram audacter”, questo era il motto. Era il mio ultimo anno di reparto, dopo quello che era stato il più bel periodo della mia vita, dove la scuola ti lasciava un minimo di libertà, dove i pomeriggi potevi uscire, andare a giocare a calcetto con i tuoi amici, dove eri lì alle prese con l’adolescenza, dove a scout ti sentivi parte di un gruppo, un vero gruppo. Ero arrivato al traguardo, proprio lì a Montecavallo, durante il campo estivo. Era il giorno dell’hike, pronti con gli zaini, i capi convocano i capisquadriglia pe rle ultime informazioni logistiche. Squadriglia di quattro persone: io, due al penultimo anno e un novizio. Molto pochi, a dire la verità. Partimmo sulle note di “Madonna degli scout”, direzione un paesino piccolissimo di appena dieci famiglie e un parroco. Dormimmo fuori quella notte. “dormimmo”, che parolona. Il nostro novizio era impaurito dalla stanza tetra, piena di ragnatele, di uno di quei bungalow della protezione civile. Passò la notte e la mattina dopo ci svegliammo prestissimo per ritornare in perfetto orario al campo, pronti per il rush finale alla ricerca del primo posto, volevamo vincere assolutamente. Sembra un normalissimo hike, ma non lo fu. È stata l’esperienza scout più bella di sempre. Il motivo: ero a capo di altre persone, senza nessuno, senza genitori, senza capi. Io, responsabile di me stesso e degli altri. Dovevo stare attento ad ogni minimo particolare, pronto a intervenire in qualsiasi situazione. È stato stancante, ma allo stesso tempo bellissimo. Lì ho capito che si era conclusa per me quella parte di vita dove ero obbligato a seguire delle regole, ma obbligato a farle rispettare.